Rubriche : romanzo rossonero

Silenzio

martedì, 19 novembre 2019, 15:27

di simone pellico

Piove da giorni, da settimane. Chi si ricorda più come è fatto il sole. Dovrebbe ancora esserci, da qualche parte dietro la palpebra grigia del cielo. Un occhio chiuso in un mare di lacrime. Un sipario che si è aperto solo per qualche ora domenica, giusto il tempo di celebrare il rito del calcio. Una pausa fra le montagne e il mare, uno sforzo geologico per trattenere il pianto sopra lo stadio di Seravezza. Addirittura un po’ di sole, fatto a fette sopra il settore ospiti, sopra le pezze dei gruppi, sopra i lancia cori che marcano il tempo come timonieri. 

Così la nave della Lucchese salpa e inizia a veleggiare. Segna, para un rigore. Risegna. Quando pensi di essere arrivato in porto sicuro, ecco i mulinelli, le correnti avverse, le onde alte. Così nel mare verde del campo si inizia ad affogare. Si sentono scricchiolare le assi, inizia a sbandare il timone mentre urla per il vento l’albero maestro. Una palla di cannone vola sopra la traversa, un’altra viene deviata dall’ultimo difensore rossonero, che si sta costruendo partita dopo partita il piedistallo del proprio monumento. Però la corda troppo tirata si spezza. La nave inizia a imbarcare acqua e gol. Quando si arriva in fondo alla partita, si naufraga sulla spiaggia con i polmoni pieni di acqua. Ma siamo ancora vivi aggrappati al pareggio.

Sugli spalti intanto si è issata una vela con su scritte parole sincere. Un abbraccio fraterno, una mano sulla spalla di chi ha servito la causa e ha perso un battito di cuore. In questo campo di battaglia della vita, che si incrocia con quello verde. Il silenzio che si deve al dolore della perdita, al saluto di chi ci lascia, può essere spezzato solo da voci vere. Quelle dei tifosi lo sono, nel canto della festa come nella trenodia.

In campo nel frattempo c’è una maglia che si muove fra le gore bianche del prato. Porta il numero quattro a spezzare le righe rossonere sulla schiena. E sulla schiena porta anche una croce, che però non si vede. Una figlia malata, che lotta dalla nascita contro il tempo. Quel tempo che l’ha fatta nascere prima, costringendola a una corsa furibonda per rientrare dal fuorigioco. Mentre gioca a Seravezza, rivolto verso il mare, vede scendere il sole e la vita non sembra così male. Ma tornerà la pioggia, a picchiettare sulle spalle, sulla croce sulla schiena.  

Si usa e abusa di una metafora nel calcio: quella degli eroi. Se si fermasse la palla per un momento, se si fermasse il sole come se fosse una lampada, a illuminarci dall’alto e dentro, come una radiografia che mostra le ferite, le cicatrici, le malattie, le battaglie perse di ognuno di noi, vedremmo veramente gli eroi. Sugli spalti come in campo. Chi ha vinto contro un tumore o lo sta ancora affrontando. Chi scala le montagne senza muoversi dalla propria sedia a rotelle. Chi convive con un problema cardiaco che se ne frega della tua età anagrafica. Chi ha strappato due ore al proprio dolore. Chi ha perso qualcuno che non tornerà. Chi lotta in mezzo al campo, e sognerebbe una battaglia così semplice per sua figlia, che a cinque anni cosa sia un eroe forse non lo sa, ma sicuramente lo è. 

E mentre scende il sole a spegnersi nel mare come un mozzicone di sigaretta. Mentre cala il sipario della partita e si riapre quello del cielo, che ha trattenuto il fiato per troppo tempo e torna a piangere le vittime del nostro tempo. Mentre piangiamo la morte di una moglie o di una figlia. Mentre scivoliamo via come gocce sul vetro di una macchina che va troppo veloce e non aspetta. Mentre tutto il nostro dolore è una goccia di pioggia nel mare dell’esistenza, e ogni dramma è solo una stella spersa nell’universo. Tutte le parole si asciugano in bocca. Silenzio.



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