Rubriche : romanzo rossonero

Chi rilascia la patente da tifoso?

venerdì, 8 maggio 2020, 08:51

di alessandro lazzarini

Ci sono diversi modi per essere tifosi. Per alcuni il tifo è un 'momento', una parentesi di evasione in cui si compie il fatto sociale e per due ore si dismettono gli impegni, i problemi, magari la famiglia. Per altri il tifo è una ragione di vita, un modo come altri per dare senso all'esistenza che non si compie solo durante la partita, ma pervade quasi ogni attimo diventando ragione di vita e una delle forme espressive dell'individualità. In entrambi i casi l'apice del sentimento si realizza quando ci si unisce alla moltitudine nel rito celebrato nel nome di un ideale incarnato negli 'eroi', contraddistinti dal privilegio di indossare l'uniforme coi colori del mito di riferimento. Non esiste un modo più degno di altri per essere sestessi e dunque non c'è un modo supremo di essere tifosi, eppure, come in ogni 'essenzializzazione', nell'ambito dello scambio e del confronto si realizzano dinamiche di inclusione o esclusione di gruppo che richiamano anche la qualità dell'essere 'veri tifosi'. 

Ma chi è il 'vero tifoso'? Chi ha l'autorevolezza di concedere o non concedere tale titolo e quali sono le caratteristiche che vanno soddisfatte per potersene fregiare? Il discorso intanto non riguarda la corrente Ultras, che è unvero e propriomovimento culturale sia politico che di rivendicazione giovanile, con valori e principi (piacciano o meno) delineati e svolti in nome di una idea di 'azione' con finalità anche sociali, oltre che ovviamente di passione verso i propri colori. L'argomento però è ricorrente nelle diatribe fra tifosi in generale e coinvolge il secondo momento più importante del calcio come fatto sociale, ovvero la possibilità di interazione al di fuori dell'evento partita, oggi in larga parte svolta sui social networks. In questi ambiti molto spesso si applica una cesura spietata fra 'tifosi veri' e 'tifosi occasionali', coi primi che si autoeleggono tali non tanto per il loro grado di coinvolgimento, chebenché rivendicatonon è misurabile, ma conteggiando le presenze, le trasferte, la pioggia assorbita per assistere alle partite e così via con altri numeri arbitrari.

E' quando il contesto assume queste meccaniche che l'essere 'tifosi' assume caratteristiche divisive, con gli autoproclamati 'tifosi veri' che si esprimono ritenendo di parlare a nome dell'interaschiera di seguaci di una squadra, di cui pensano di essere punto di vista incarnato. Eventuali commentatori considerati occasionali o articoli ritenuti non conformi ai dettami stabiliti dal gruppo degli autocertificati'tifosi veri', vengono immediatamente emarginati e attaccati come eretici nei confronti di un dogma, talvolta con toni assolutamente fuori registro rispetto all'argomento trattato, cioè con scherno, offese o intimando a una testata giornalistica di 'rimuovere' (letteralmente) un pezzo in quanto 'non conforme', altre volte esprimendosi come se venisse assegnando un voto a ciò che viene commentato,con tono da divinità detentrice della verità "approvo" - "non approvo quindi va eliminato quindi non sei un vero tifoso".

Tutto ciò ovviamente non ha a che fare esclusivamente con l'ambiente del calcio o della tifoseria, perché il problema del confronto con l'opinione altrui, dell'abitudine al contraddittorio e della necessità dell'argomentazione per realizzare una comunicazione compiuta attanaglia la societàmoderna in ogni ambito. Il sistema per lo più in voga è quello polarizzato tribale in cui le opinioni vengono espresse senza argomentazione in forma di sentenze, il confronto è rimpiazzato dal consenso adesivo espresso con dei 'si' e 'no'; se 'si' sei dei miei, se 'no' sei il nemico o, bene che vada, il compagno che sbaglia. Chiaramente il fine di questo genere di scambio è del tutto cameratesco, cioè creare gruppi antagonisti per ovviare il rischio di mettersi in discussione. Comunicare è ben altra cosa il cui il presupposto necessario è l'apertura alla possibilità di cambiare idea ascoltando l'altro, il che non significa certo che l'idea vada cambiata davvero, ma che si è disposti a mettere in dubbio se stessi. E' una cosa che in pochi sanno fare, perché nella società individualizzata dell'apparenza sapersi mettere in dubbio, cioè essere capaci del confronto che genera conoscenza, sembra equivalente a porre in discussione la propria maschera sociale, cioè quello che si ritiene essere il 'sé' che si propone al mondo, un 'sè' che qualora venisse infranto potrebbe generare un calo di prestigio nel gruppo, ovvero insicurezze che si possono ovviare grazie allo scambio binario cameratesco.

Quello che vogliamo dire è che l'unico momento serio del calcio è quello sociale di comunità, quello dove ci sono le bandiere, le persone accanto, i bambini che si divertono, gli ultras che si colorano, le discussioni, gli sfottò e i giocatori che indossano la maglietta 'mitica'. Tutto il resto, cioè tattiche, burocrazia, contabilità, giocatori, calcio mercato, interviste, appartengono all'ambito sportivo che non conta nulla, riguardo al quale tutti possono esprimersi perché non è richiesta alcuna competenza per farlo, poiché sono sciocchezze alla portata di tutti, cioè colore e gossip intorno a un gioco, riguardo alle quali chiunque può avere una opinione meritevole come le altre senza risultare sacrilego. L'autocertificazione degli affetti per conto terzi potrebbe invece creare gruppi chiusi, esclusivi ed esoterici, rendendo più difficile ampliare il senso di comunità e quindi partecipazione che invece dovrebbe essere il fine della propria passione.



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