Rubriche : romanzo rossonero

Lucchese - Grosseto: stadio, Covid e sessismo

giovedì, 8 ottobre 2020, 12:30

di alessandro lazzarini

A distanza di quasi otto mesi da Lucchese–Ligorna il Porta Elisa riapre i battenti, ed è la prima volta dall’inizio della pandemia che i lucchesi possono tornare a vedere la partita. L’effetto è certamente straniante, bisogna stare a distanza con l’obbligo di indossare la mascherina: al ristorante e nei bar si può togliere, all’aperto sulle gradinate no. Sono le contraddizioni che conseguono al tentativo di contenere i contagi cercando di salvaguardare le attività economiche per evitare la macelleria sociale del Paese. Mal di poco, tutto sommato, perché le temperature invernali rendono meno fastidioso l’orpello che ormai ci accompagna ovunque coprendo faccia e sorriso. A garantire il rispetto delle regole una pattuglia di inservienti in pettorina gialla, loro malgrado costretti a interpretare il ruolo della psicopolizia; all’ingresso controllano la temperatura, durante la partita passeggiano sui gradoni e intimano gentilmente di coprire il viso a chi si abbassa il velo sotto al mento. Nel decrepito Porta Elisa, già abbandonato dall’amministrazione a suo tempo e adesso in attesa di una più che necessaria ristrutturazione, entrano circa 400 spettatori sui mille consentiti; non sono pochi se si considera che ad Arezzo – Perugia, scontro peraltro molto sentito, hanno assistito in 185, ma ad occhio l’incasso potrà appena esser stato sufficiente a coprire le spese di apertura dell’impianto e per il servizio d’ordine.

D’altra parte, era prevedibile che l’emorragia di spettatori nelle categorie minori fosse amplificata ulteriormente dal Coronavirus, ora più che mai il calcio ha compiuto la sua trasfigurazione da evento sociale e spettacolo televisivo, poi è un turno infrasettimanale e, soprattutto, gli ultras più o meno in tutta Italia hanno deciso che a queste condizioni allo stadio non entrano. Quali condizioni? La scelta classista degli spettatori a invito che sta caratterizzando il calcio maggiore, dove il poco pubblico permesso viene scelto nominativamente dalle società. È la contraddizione stessa dello spirito del calcio, sport popolare per eccellenza che allo spettacolo sul campo aggiungeva una vita propria in atto sulle tribune, dove le più svariate sfaccettature della società interpretavano un ruolo di valenza antropologica: la borghesia in tribuna, le classi medie in gradinata, quella operaia e le forme di opposizione al potere conformista nelle curve. Scegliendo chi può e chi non può assistere alla partita (cosa che comunque già si faceva ad alti livelli manipolando i prezzi dei biglietti) il calcio diventa un fenomeno elitario sradicato dalla sua natura popolare: i privilegiati partecipano, gli esclusi stanno a casa, lontani quindi invisibili, e pagano il divertissement dell’aristocrazia. Tutto ciò forse non era strettamente valido ieri a Lucca, dove non c’è stata scelta nominale e dove tutto sommato anche gli ultras avrebbero potuto trovare posto, ma è valido in via di principio e come argomento su cui riflettere.

La curva della Lucchese non era dentro lo stadio, ma era vicina alla squadra, sulle Mura, a proporre con uno striscione le ragioni della sua scelta: “O tutti o nessuno”. Uno stadio senza curva però è anche uno stadio morto, privo di canti, colore, bandiere e fumogeni, forse un teatro senza senso, dove al trascinante tifo si sostituisce una platea che, a Lucca forse più che altrove, si sente qualche volta applaudire e molto spesso per lamentarsi di un errore, offendere o criticare i propri giocatori: è un ‘fattore campo’ ribaltato a favore degli ospiti, a maggior ragione se ad indossare la maglia rossonera sono giovani esordienti che più di vecchie volpi possono sentire il peso di un ambiente simile, quasi ostile e insoddisfatto. Un pubblico però che su un fatto specifico riesce ad accendersi. E’ il secondo tempo, un giocatore del Grosseto resta a terra ed entrano i sanitari biancorossi a curarlo; peraltro non si perde tempo perché il giocatore si sposta a bordocampo, fatto sta che uno dei soccorritori biancorossi è una donna, il che è abbastanza raro sui campi da calcio: ecco allora che la gradinata si scalda, inizia ad invitarla a fornire cure ricorrendo a ‘talenti’ non certo riconducibili alla sua professionalità specifica, la apostrofa come praticante del più antico mestiere del mondo e così via con altri epiteti che nessuno vorrebbe sentir rivolgere alla propria compagna o figlia nemmeno in forma gratuita, immaginiamo. Una pioggia di insulti che continua per tutto il tragitto lungo il campo della signora, che peraltro reagisce abbassandosi al livello del pubblico e rivolgendo verso la gradinata un gesto volgare. Razzismo, omofobia, sessismo, sono argomenti che mai come gli ultimi anni sono entrati nel dibattito pubblico quotidiano; certo, nella quasi totalità dei casi sono usati come strumenti ideologico-politico dal pensiero dominante per tappare la bocca a visioni altre, spesso evocati in contesti e situazioni in cui è molto dubbia la consistenza di quanto si denuncia, sovente strumentalizzati col fine di dipingere come reietto chi ne viene accusato prima ancora di verificare la consistenza di tali addebiti, addirittura chiedendone il licenziamento o altre conseguenze dannose per la sua persona (benché non vi siano reati, il potere culturale conformista è potentissimo quando decide di creare dei paria). Non per questo però dobbiamo rinunciare ad evidenziare i casi in cui questi retaggi si rendono davvero visibili: anche nell’ambito di un ambiente stadio, dove l’offesa è molte volte un vero e proprio fenomeno di folklore inscenato contro i ‘nemici’, l’unica ‘colpa’ della sanitaria del Grosseto era proprio l’esser donna, perché è ben raro che gli strali del pubblico si rivolgano ai massaggiatori, più o meno percepiti come tecnici terzi alla squadra, quando sono uomini (a meno che non interpretino un ruolo partigiano nella contesa, ad esempio perdere tempo). È stato un momento di vero sessismo.

Della partita han già detto quasi tutto le cronache; la Libertas è stata in lungo e in largo dominata dal Grosseto, che ha sempre controllato la partita senza mai correre rischi. I maremmani sono apparsi squadra di Serie C, fisica, ordinata e solida, che senza strafare e col minimo sforzo ha superato una Pantera appena ordinata quando doveva difendere ma completamente allo sbaraglio quando attaccava. I rossoneri sono leggerissimi e sembrano andare a due velocità, nel senso che gli avanti sono piccoli e veloci, ma si accendono singolarmente, senza essere supportati dal centrocampo, quasi sempre lontanissimo da Nannelli, Scalzi o Bianchi, o chi per loro nel secondo tempo. Emblematica la sostituzione di Cruciani nell’intervallo, forse compiuta per rendere più dinamica la mediana, ma anche una mossa (a meno che non sia motivata da ragioni che non conosciamo) che pare sconfessare da parte dell’allenatore la costruzione stessa della squadra: sotto di un gol con una della poche squadre che gli addetti ai lavori indicano alla portata della Lucchese, quindi diciamo una teorica diretta avversaria nella corsa per la salvezza, per recuperare si toglie uno dei pilastri cosiddetti esperti, cioè una delle poche certezze attorno al quale è stata inserita una pattuglia di giovani promettenti ancora tutta da scoprire. La prima occasione i padroni di casa la costruiscono al novantatreesimo, dopo che gli ospiti avrebbero potuto dilagare. È ancora presto per giudicare la squadra, c’è tempo per recuperare, di certo non sarà difficile migliorare la prestazione offerta alla riapertura del Porta Elisa.



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